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Ingoia e fai finta di niente

Gorsciaskji CMA (Compagnia Mentale Autogestita)
Regia: Anna Schirru
Drammaturgia:
Attori: Maria Gorini Caterina Sciariada
Anno: 2012
1. Io sono il Padre Dio tuo.
2. Ricordati di santificare il suo ordine. Il tuo ordine è il suo ordine.
3. Il mondo esterno è decisamente sopravvalutato.
4. Non uccidere: tortura.
5. Ruba l’anima al prossimo tuo come è stato fatto a te.
6. Il maschio è l’animale più ripugnante e il suo odore mi disgusta.
7. Onora il padre e la mamma.
8. Non desiderare nessun altro all’infuori di me.
9. Non desiderare nient’altro al di fuori di qui.
10. Ingoia e fai finta di niente.

Due sorelle vivono la loro distopia quotidiana.
Distorcono Tempo e Spazio naturali per creare un microcosmo che è solo loro, regolato da un decalogo che scandisce le loro vite e che hanno ereditato, così come si eredita il colore degli occhi.
La loro quotidianità rituale è scandita da una placenta di lenzuola da cui rinascono ogni mattina e da un ciclo eterno di gesti ripetuti.
Chiuse nella stanza dei giochi , tra lenzuola, arance, fotografie, disegni sbiaditi, lucine e fili colorati, lavagne e gessetti, sembrano bastare l’una all’altra. Reinventano segni e codici, in bilico tra un’infanzia recisa e un’età adulta desiderata e ingombrante. Un dentro che guarda ad un fuori solo raccontato.
La stanza racchiude e costringe tra le sue mura due energie opposte: una ripiegata all’interno del “rifugio” e l’altra tesa al di fuori della “prigione”.
Le due sorelle non esistono se non nella mutua relazione di forza e debolezza, nel protrarsi di una continua e reciproca tortura. Per mantenere questo equilibrio usano la sola strategia che conoscono: il gioco, unico momento di autenticità. Un gioco da bambini che diventa occasione per dare libero sfogo a pulsioni adulte, violente e torbide, pulsioni altrimenti costantemente taciute. Se si vuole sopravvivere non si può far altro che tacere: ingoiare e fare finta di niente.

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La Compagnia Mentale Autogestita Gorsciaskji nasce con De André nelle orecchie, lungo la strada Genova-Milano, in una sera dello scorso settembre, che sembra ieri ma potrebbe anche essere un secolo fa. Una milanese, una romana, una sarda e un piacentino che tornavano stremati dai provini dello Stabile di Genova. Pieni di speranze, ma in fondo tutti sapevano come sarebbe finita. Ci siamo detti: “Mettiamo in scena i Ragazzi terribili di Cocteau”, perché noi il teatro lo volevamo fare a tutti i costi.
Purtroppo avevamo ragione sui provini, ma non su Cocteau. Il piacentino ha preso un’altra strada. Così ci siamo trovate in tre, tutte donne e tutte del segno dello scorpione. Forse sarebbe stato il caso di abbandonare il progetto. Io, la sarda, sarei ritornata a lavorare in libreria, la milanese avrebbe tentato un dottorato in antropologia e la romana sarebbe tornata nella capitale a cercare altre strade. Ma forse no.
L’urgenza di trasformare quell’energia messa nei provini e poi tristemente delusa in qualcosa che ci avrebbe fatto stare bene era forte.
Abbiamo affittato una stanza, perché definirla sala teatrale sarebbe troppo, che per noi è diventata familiare e rassicurante più delle nostre rispettive case. Un luogo dove lasciarsi andare senza paura, dove sbagliare e ricominciare, senza giudizio. Ci siamo sentite libere di creare, di sudare, ridere, piangere, ritrovare un passato doloroso da rivivere e immaginare un futuro oltre ogni aspettativa. Abbiamo scatenato sogni, fantasie e incubi inconsci. Abbiamo lavorato ad occhi chiusi, tanto, lasciando a briglia sciolta la bellezza dei nostri mondi interiori, ripescando ricordi dimenticati, suoni dell’infanzia, pulsioni represse, vestendo i panni di chi, solo un po’, ci ha resi quello che siamo oggi.
Abbiamo lavorato tanto e sempre in profondità, consce dell’importanza del tempo per la maturazione di un progetto comune. La condivisione di capacità e insicurezze ci ha salvate tante di quelle volte che è impossibile non credere fortemente al gruppo come fonte inesauribile di energia.
Ora, dopo mesi di indagine e studio, sentiamo l’esigenza di condividere questo lavoro. Il teatro lo facciamo perché ci fa stare bene, ci rende vive e vorremmo portare fuori questa necessità, sperando che chi ci vede non dia solo un giudizio positivo o negativo, ma vi si riconosca così come ci siamo riconosciute noi.
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