Regia: Dalila Desirée Cozzolino
Drammaturgia: Dalila Desirée Cozzolino
Attori: Dalila Desirée Cozzolino
Altri crediti: da Macbeth di William Shakespeare aiuto regia Rachele Minelli disgno luci Giacomo Cursi
Parolechiave: Macbeth, Idola, Theatri, Ragli
Produzione: Compagnia Ragli e Emergenze Romane SalaRoma Teatri 2018
Anno di produzione: 2018
Genere: Prosa Performance
Del Macbeth abbiamo scelto di raccontare la superstizione: la sua fascinazione, la paradossale razionalità, la tendenza alla ritualità che essa comporta, l’affannosa speranza di una conformità della natura a scopi.
La riflessione parte dall’occasione che viene data a Macbeth dalle tre streghe (Atto 1, scena III): quale orizzonte di senso si può dare alla battuta “Salute a te, che un giorno sarai re”? Ci sono tantissime possibilità; proviamo ad assecondare la molteplicità stando nell’indefinitezza, nell’impreparazione di senso. Macbeth muove l’azione scenica a partire da qui: astrae e compone creativamente, esattamente come fa la nostra immaginazione davanti all’arte in generale. Quella frase è l’occasione. E allora Macbeth interpreta abitando il suo mondo in modo sempre più creativo, ideale, sovrannaturale. Super-stitio, stare sopra. Stare in una libertà spaventosa, farsi re, sentire oltre il sentire, vedere e mostrare ciò che non c’è, come un attore.
Nel Novum Organon, F. Bacon traccia un metodo finalizzato alla conoscenza di un fenomeno. La pars destruens è costituita dagli Idola, i pregiudizi della mente. Gli Idola Theatri, in particolare, sono le filosofie superstiziose che hanno contribuito a creare mondi fittizi da palcoscenico e ci rendono interpreti della realtà come se essa fosse intrisa di presagi, disegni. Da qui l’idea scenica di non rappresentare i personaggi in quanto personaggi, ma come “stati di coscienza”. Il mondo fittizio è quello di Macbeth, chi lo popola avrà le sembianze che Macbeth ha scelto di dargli. Tenteremo di raccontare la sua allucinazione partendo dalle visioni sui corpi esistenti, vivi, mortali. Sono prima di tutti i corpi ad apparire, sono loro le prime trasfigurazioni, poi arriveranno gli spettri. È così diverso dalla realtà? Si sceglie di vedere nell’altro quello che più si desidera vedere. E come siamo nell’òikos? Quanto siamo diversi quando restiamo soli? Quanto possiamo essere terribili e spaventosi? Cosa ci tradisce in una dimensione pubblica? Il corpo, prima di tutto. Scegliamo, allora, talvolta, di illuminarne solo delle parti: quelle che possono essere testimoni della nostra finitezza. Perché la finitezza, alla fine, si mostra. E finitezza è la possibilità di perdere. Si parla di potere ma molto di più della possibilità di perdere. Usiamo le luci non come dispositivo estetico, ma come parte della scrittura scenica, elemento drammaturgico. In scena una lucciola, una torcia, una lampada wood, una testa mobile mostreranno quello che non c’è e guideranno l’imperativo “immagina”. Ad introdurci nell’opera sarà un personaggio minore: il portiere che arriva nel secondo atto, quel fool immancabile nei testi di Shakespeare; è lui che apre la porta ai personaggi dell’opera, li invita ad entrare in quel mondo fittizio e a farsi stati di coscienza. Quel mondo lui lo chiama inferno. E a tutti è parso, almeno una volta, che la propria mente fosse un inferno. Abbiamo, poi, scelto di provare a recuperare la bellezza del
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