Regia: Valentina Carbonara
Drammaturgia: Valentina Carbonara
Attori: Annamaria Palomba
Altri crediti: elementi di scena: Monica Costigliola e Angelo De Tommaso assistente alla regia: Ciro Esposito
Parolechiave: carne, favola, cuore, hansel e gretel, guerra
Produzione: Esposti in collaborazione con Morks
Anno di produzione: 2016
Genere: Prosa
SINOSSI
La casa non è più di marzapane, la foresta è una città sventrata dalla guerra.
Fuori, forse, non c’è più nessuno.
Le bombe hanno smesso di cadere. La fame è tutto quello che resta.
Se non sei cacciatore sei preda.
“Zompa, guarda, accire. No. Zompa, accire, guarda. Sì.”
Solo la Carne alla fine della favola.
NOTE DI REGIA
Cosa resta dell’uomo quando l’umanità non c’è più?
Dopo la guerra, le bombe, la distruzione di tutto ciò che di familiare ha intorno a sé.
Dopo la perdita degli affetti e dei mezzi di sussistenza.
Quando non è più necessario parlare. E forse nemmeno pensare.
Cosa resta?
“Carne” parte da questa domanda.
Mi è capitato spesso di chiedermi cosa accadrebbe se, davvero, non ci fosse più speranza, se l’uomo occidentale dovesse trovare il modo di sopravvivere dopo che la guerra ha distrutto e contaminato tutto.
Nella favola di “Hansel e Gretel” succede qualcosa di simile: durante la grande carestia si sopravvive come si può, abbandonando i figli nel bosco o adescando ragazzini golosi per poi cuocerli nel forno. In “Carne”, però, non è la crudele vecchina della casa di marzapane a scegliere di andare avanti nel modo più barbarico e animale, ma è la stessa Gretel.
È' lei a raccontare la felicità prima della guerra, la guerra stessa, la carestia, la soluzione trovata dagli uomini per sopravvivere.
La quotidianità, lentamente, si riduce al mangiare o essere mangiati e non c’è tempo per i sentimenti. Tranne, forse, quelli per il fratello, unico legame con il suo passato da “essere umano”.
Gretel è l’esemplare di una nuova evoluzione della specie.
Il corpo cambia, la posizione eretta non gli appartiene più.
Anche la voce non è più la stessa. I suoni vengono fuori rotti, stonati, le parole sono masticate e vomitate riempiendo la bocca e lo spazio. Pronunciarle è una scoperta continua. Gretel si racconta utilizzando la lingua napoletana, lingua madre, più viscerale dell’italiano imparato a scuola e, quindi, più naturale. In scena tante sedie, diverse e smembrate, con le quali è possibile provare a ricostruire un lontano focolare domestico. Ma la sedia è propria dell’essere umano e, nonostante lotti con tutte le forze che le restano, Gretel non vi si potrà sedere.
Eppure, da qualche parte, la bellezza sta rinascendo, anche se Gretel non è più capace di riconoscerla. E così la favola ha un solo finale possibile.
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