Regia: Gesualdi / Trono
Drammaturgia: libero adattamento di "Tutti quelli che cadono" di Samuel Beckett
Attori: detenuti della casa circondariale di Napoli - Poggioreale Giuseppe Rosano (ex internato del Manicomio Giudiziario di Aversa)
Altri crediti: una creazione di TeatrInGestAzione ispirata a "Tutti quelli che cadono" di Samuel Beckett con il sostegno di "il Carcere Possibile Onlus" in collaborazione con la casa circondariale di Napoli - Poggioreale
Parolechiave: beckett, radiovisione, deleuze, esausto, inesorabile
Produzione: TeatrInGestAzione
Anno di produzione: 2015
Genere: Prosa Performance Altro
Dopo 8 anni di permanente lavoro teatrale con gli internati del Manicomio Giudiziario di Aversa, inauguriamo un nuovo laboratorio teatrale all’interno del carcere di Napoli Poggioreale con un ritorno a Beckett, un lavoro intorno a “Tutti quelli che cadono”.
In scena una radio che manda la registrazione della pièce, raccolta nelle stanze del carcere. Le voci che ascoltate appartengono a tutti i detenuti che si sono avvicendati durante il corso di teatro. In esse, tutto ciò che possa essere spremuto da una carcassa d’uomo. Un tentativo di resistere all’afasia, solo attesa di una fine qualunque, in un dormiveglia in cui campeggiano all’orizzonte sogni e desideri, di altri, fatti propri.
Un'esperimento di ascolto collettivo. Siamo tutti presenti nello stesso luogo, quello del suono. Ci accomuna l’horror vacui, l’insensatezza di certi destini, l’abitudine al male minore, l’insostenibile peso del quotidiano.
Il radiodramma dialoga con un’immagine in lento ed inesorabile movimento, una caduta rovinosa, costruita ripensando al deleuziano "fare un'immagine".
“Beckett On Air” vuole essere un campo lungo sull’umanità atrofizzata nel pensiero, povera di linguaggio, primitiva nei desideri, soffocata dal possesso, evocata da Beckett in immagini di corpi esplosi, putridi, bestiali, fusi con pezzi di lamiera, o disciolti nel fango, ricoperti di polvere. Immagini che sottratte alla rappresentazione visiva da Beckett, qui verranno soltanto accennate, suggerite, per essere formulate in piena libertà dallo spettatore, affinché abbiano le fattezze dei propri fantasmi, dannati, in un cammino sfrenato verso un’unico obiettivo: il riposo.
In questa cieca corsa verso la morte da differire attraverso altre morti, il Dio grottesco riduce tutte le vite che incontra a miserabili passatempi. E il richiamo della fine romba in lontananza.
In carcere abbiamo ascoltato quel linguaggio zoppo, privo di nessi causali e spesso confuso da un grammatica imprecisa. Continuamente i discorsi non fanno che arenarsi per via del lessico scarno, o più semplicemente dell’impossibilità di distinguere il “potrei” dal “potessi”. Abitanti di un mondo di desideri falsi, che tutto costruiscono su quelle poche parole che sono loro rimaste impresse, o per caso o per convenienza. Non vi è dunque possibilità di capirsi appieno se non nel lamento, nella crudeltà. Svestendo la propria “funzione sociale”, sposando la disillusione, minando la speranza, il desiderio, il pensiero della felicità, della soddisfazione, il concetto di forza, potere, amore, famiglia. E sui questi cocci celebrare la vita che viene.
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