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MALEVOLEVABENE

COMUNQUE POLONIO ERA MALATO - TEATRO

Genere Prosa
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Regia: Monica Bonetto e Stefano Dell’Accio - Assistenza alla mess

Drammaturgia: Monica Bonetto e Stefano Dell’Accio

Attori: Monica Bonetto

Altri crediti: MALEVOLEVABENE Uno spettacolo di Monica Bonetto e Stefano Dell’Accio Con Monica Bonetto Assistenza alla messa in scena Chiara Lombardo Luci e fonica Simona Gallo Elaborazioni musicali Davide Sgorlon Distribuzione Silvia Limone

Parolechiave: donne, riscatto,violenza,ironia,coraggio

Produzione: COMUNQUE POLONIO ERA MALATO - TEATRO

Anno di produzione: 2013

Genere: Prosa

Prove di riscatto, esercizi di interruzione della sudditanza, istantanee di violenza subita senza punto di non ritorno.
Donne che non si piangono addosso più di tanto, giusto quel che serve per prendere la rincorsa.
Che non fingono, non più.
Che non ridono, non ancora, anche se c’è già, inaspettata, l’intenzione di un sorriso.
Vittime sì, ma in procinto di smettere.
Per provare a immaginare un finale diverso.
Per smascherare il lupo.
Per non farsi sbranare.
Per capire che in fondo, ad avere il cuore da pecora, è lui.

Alcune cose che mi erano chiare.
Che volevo fare uno spettacolo che parlasse di violenza sulle donne.
Che non volevo raccontare un omicidio, piuttosto il suo contrario: il percorso e l’attimo in cui una vittima decide di smettere di essere tale, e prova a riprendersi la vita.
Che mi sarebbe piaciuto, ancora una volta, raccontare il coraggio delle donne, quello quotidiano, taciuto, nutrito di risorse impensabili, inesauste, e di mezzi imprevedibili.

Come l’ironia.
Quella femminile, precisamente femminile, che sa convivere con il dolore, che ha la capacità di farlo spurgare in una risata quando intasa il respiro, che dissacra la tragedia, e la minimizza quel che basta per racimolare le forze.
E che, usata bene, è un antidoto portentoso.
Sapevo anche che non volevo cadere nella retorica vittimista. Perché attizza l’indignazione, ma mette al riparo, rassicura, marcando la distanza tra il caso di cronaca e la proba normalità di cui ci si può vantare di far parte.
Un’altra cosa chiara era il meccanismo della ripetizione: ogni “esperto” con cui ho parlato, ogni storia che ho ascoltato, lo sottolineava: gli uomini violenti, di qualsiasi classe sociale, grado di istruzione, provenienza geografica, si comportano allo stesso modo, identiche le mosse, le strategie, i comportamenti .
E le vittime, tutte, tendono a giustificare, minimizzare, negare, sentirsi corresponsabili, accettare la violenza come inevitabile, sino alla morte.
Ma prima, prima della morte, c’è un momento prezioso in cui avvertono il pericolo, l’assurdità, l’inganno. E ci provano.
A parlare, a chiedere aiuto, a denunciare.
Ecco, questa è l’ultima cosa che mi era chiara: che dentro, ci siamo tutti. Immersi in questa brodaglia primordiale in cui i cattivi picchiano, prevaricano, uccidono, e i buoni, maschi e femmine, intrisi di clichè inconfessabili, non sanno vedere abbastanza, ascoltare abbastanza, opporsi abbastanza, educare abbastanza.

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